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Decimo dono: dirmi il sacrificale da fare.
Venga il mio sacrificale fisico.
Terza richiesta: il suo costo.
Maggiorato quello del sacrificale di provenienza.
Ingredienti esterni al piacere della tavola:
1) Il servizio
2) La compagnia
3) L’allegria.
Lo scontro alla mensa. La tavola fa stanca la donna e
acceca l’uomo, che non vede più la fame altrui, come
l’epulone. A tavola l’inferno.

Pneumatica magia quella del visuato Paterno, che tocca il
vecchio fideato e tutto lo rinnova. Tocca la preghiera del
dire egoisticale, ed ecco uscir fuori la preghiera del fare
sacrificale. Ci si accosta pregandolo.
Quando pregate, voi dite: Padre nostro che sei nei cieli.
Preghiera sacrificale da dire e da fare. Bene appellato e collocato.
Bene augurato e perorato: venga il tuo Regno sacrificale:
temporale e eternale.
Col tuo il nostro: il cosmico, il bellico, l’inimicale, il fisico:
venga il nostro sacrificale fisico. Deriva dalla forma
potenziale della vita. Effettivamente ad essa unito, affettivamente
stralciato da essa. Possibile la riappacificazione
mediante l’amore sacrificale che attingiamo dal visuato
Paterno pronto a rispondere a queste richieste:
1) Cosa mi vuoi dire
2) Cosa mi vuoi fare
3) Quanto mi vieni a costare: dolore fisico e morale sono
il suo costo.
Costa il sacrificale fisico di evenienza, ma costa ancor di
più il sacrificale fisico di provenienza: quello provocato da
noi in modo indiretto e in modo diretto. Al modo indiretto
concorrono i vari disordini morali. Lasciato il sessuale,
abbiamo accostato l’alimentare. La alimentazione è un atto
vitale, cui è allegato un richiamo e una attrazione: il piacere
del mangiare, che ci dà la degustazione. È semplicemente
un mezzo, che la persona trasforma in fine. Vogliamo
infatti che l’alimentazione ci dia il massimo di piacere sensibile.
La volontà dall’amore egoisticale. Due piaceri si
combinano: quello spirituale dell’amarmi e quello sensibile
del mangiare. Arte culinaria e industria dolciaria sono al
completo servizio del piacere della tavola. Forniscono gli
ingredienti interni; a quelli esterni, ci pensiamo noi.
1) Il piacere della tavola vuole con sé la dolce sensazione
e ambita del sentirsi serviti da grandi signori.
Trattamento riservato a nobili di un tempo, oggi accessibile
a tutti, almeno occasionalmente. Così la mensa si
fa migliore, lascia il posto a quella del bar e del ristorante
e dell’albergo. Sarebbe bene che la gioia dell’essere
serviti a tavola almeno qualche volta sia assegnata
alla donna di casa.
2) Il piacere della tavola vuole ancora la compagnia. La
compagnia stimola, spinge e costringe a superare facilmente
i limiti della macerazione.
3) Alla compagnia bisogna sacrificale l’esigenza mia. E con la
compagnia vuole l’allegria. Ci pensa Bacco ad alimentarla.
Così andiamo accumulando esigenze egoisticali alimentari
tali che la mensa dell’incontro diventa in continuità il luogo
dello scontro. È facile capire che la donna è stanchissima
della cucina e ad alleggerire il peso della preparazione non
serve più neppure quell’amore egoisticale di cui la donna ha
buone riserve. Se non provvede alla varietà quotidiana del
cibo: un menù che varia ogni giorno, alla sua squisitezza,
corre pericolo di vedersi i piatti volare, insieme a una infinità
di lamentele. Quell’‘uffa’ indignato dà la misura della
egoisticità alimentare. Così, la vista dell’uomo si accorcia,
fino a non vederci più neppure a distanza ravvicinata. È
l’agonia della solidarietà con chi soffre la fame. Quella
evangelica non è solo una parabola, ma è una scena mondiale.
Al portone del ricco giace un povero piagato e affannato;
ci pensano i cani a curare le sue piaghe, e ci pensano
le briciole della spazzatura a saziare la sua fame. Il ricco si
fa su il suo inferno proprio a tavola e lo fa su con la sua
egoisticità alimentare che gli acceca la vista sui fratelli.
Senza fatica affermiamo: a due mense la persona si fa un
inferno: alla tavola sessuale e a quella alimentare.

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